Ada Boni, come scoprire l’Arte della felicità

“Cucinare è la più gaia delle arti […] e l’alimentazione è una parte essenziale della nostra vita”.  

Non sono gli Chef pluristellati ad esprimersi così, neppure suor Germana, che imperversa nelle ricette a fascicoli degli anni ‘80/’90, non è Antonella Clerici , nostra signora della cucina televisiva, e  tanto meno il nutrizionista che, ogni primavera, ci ricorda che dobbiamo mangiare meno e meglio, per dimezzare consumi voraci e calorie consolatorie. È Ada Boni, che all’inizio del Novecento, racconta così la sua ricetta della felicità.

Ada Giaquinto, romana di famiglia benestante, sposa il critico musicale Enrico Boni e divide le sue giornate tra la casa di Roma e quella di Santa Marinella. Cene ed incontri con gli amici sono all’ordine del giorno e Ada in queste occasioni da’ sfogo al suo estro culinario, con notevole successo. C’è proprio tutto, non manca nulla: una dimensione sociale appagante, una vita di coppia equilibrata, un marito interessante e una moglie dedita ai fornelli. Il cliché sembra completo, eppure la passione di Ada supera di molto i confini del cucinare per necessità, per rappresentanza o per dovere familiare. Anzi ne individua soprattutto l’aspetto ludico e pratico, poiché fin da bambina sfoglia i famosi ricettari dello zio Adolfo e già dal 1915 decide di pubblicare una rivista tutta sua in cui raccontare le proprie esperienze culinarie.

Tuttavia raggiunge l’acme quando negli anni ’20 consegna alla Colombo editore il manuale di cucina per eccellenza: il Talismano della felicità.

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Mezzo chilo di ricette che riposa sugli scaffali di ogni cucina storica che si rispetti.  Nasce come tradizionale regalo di nozze per le spose alle prime armi, per venire poi passato in eredità di madre in figlia, di nonna in nipote, come trasmissione di una sapienza ed energia primigenie. Un segreto, una panacea…un talismano, appunto, da sfogliare e rigirare per trovare sempre la ricetta appropriata per risolvere ogni situazione.

In copertina ci osserva in tralice un contadino, che distratto dalla nostra curiosità insistente, solleva lo sguardo dal pasto con aria interrogativa: è  il Mangiafagioli , che nasce dal pennello di Annibale Carracci intorno al 1584.

Verso il termine del XVI secolo, l’arte pittorica è impegnata nel riscoprire il realismo insito nella quotidianità e Annibale fonda perfino un’accademia dove insegna a dipingere con veridicità.  Il Mangiafagioli diventa uno dei manifesti più efficaci. Nel buio di una taverna il protagonista, evidentemente di umili origini, sta consumando voracemente il suo pasto fatto di fagioli e una qualche sorta di verdura; una pagnotta sboncconcellata, un mazzetto di porri e una panciuta brocca di vino rosso campeggiano sulla tavola vivificando l’atmosfera. Ma su tutto è lo sguardo diretto e perplesso del contadino che ci attrae nella scena e che genera in noi, che lo osserviamo da secoli, una sorta di immedesimazione. Riconosciamo tutti quell’appetito e quella voracità che ci avvolge quando, nell’arco di una lunga giornata, finalmente ci concediamo un momento di riposo attorno al desco.

Bene, proprio questa immagine, una sorta di istantanea di fine Cinquecento, accompagna da decenni le parole di Ada: ricette, condite da ampie dosi di bon ton, narrate con piglio materno e istruttivo. Ma forse è proprio nella finalità con cui viene creato il Talismano della felicità, che trova giustificazione la presenza del Mangiafagioli: mangiare è un godimento dei sensi e cucinare è la migliore strada per raggiungerlo.

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