Il cibo è la storia dei popoli, il cibo è lo specchio dell’epoca in cui si vive e, proprio per questo, non può essere estraneo alla letteratura. A prescindere dai libri puramente di descrizione ed esecuzione di ricette culinarie, il cibo lo troviamo in tantissimi romanzi e racconti che vanno dall’antichità ai giorni nostri.
Nel Satyricon di Petronio Arbitro, Trimalcione con i suoi banchetti, esprimeva la propria egemonia e quindi: il suo potere.
Ma non solo nella Roma imperiale dei patrizi, sono descritte le abitudini alimentari di quell’epoca, sul “De Agricoltura” di Marco Porcio Catone, si trovano descritte minuziosamente le mense degli agricoltori e degli schiavi che lavoravano ai latifondi dei ricchi possidenti.
Il cibo come riferimento storico, culturale e religioso. I Vangeli, descrivono “L’ultima cena di Gesù” , agnello sacrificale, il pane ed ovviamente l’eucaristico vino.
Per vivere l’uomo ha bisogno di alimentarsi. Il potere è in mano a chi possiede i granai del mondo. Colombo scopre l’America e con lui porta i suoi cibi esotici. Il cacao, i pomodori, le patate, il mais, il fagiolo rosso, le noccioline, l’ananas ed il mango… ed ecco nella letteratura entrare questi alimenti ed ecco che Proust nella sua “Recherche” in un brano decanta le meravigliose colonne di gelato al cioccolato e lampone presso il Ritz. E che dire di Giacomo Leopardi che descrive con amorevole passione il cioccolato in alcune sue lettere.
Memorabile è la parte che il cibo ha nei “Promessi Sposi”. Il Manzoni descrive la disperazione di una carestia e l’agonia di un’umanità privata della materia prima della vita che accompagna la fame, quella vera, con improbabili ricettari con portate a base di pani di riso impastati con orzo, segale a veccia, erbe di prato amare, cortecce d’albero condite con un po’ di sale ed acqua di cattiva qualità (capitolo 28).
Non c’è più la pietà e la misericordia, quando c’è la fame, pietà e misericordia diventano un lusso che l’umanità non può più permettersi.
Nel Gattopardo, la storia è diversa, l’opulenza diventa il costume che denota e differenzia la classe nobile e ricca dalle altre. Basti pensare alla descrizione del “torreggiante timballo di maccheroni” servito a Donnafugata in casa Salina, quando l’involucro di pasta dorata che racchiude un ricchissimo ripieno, sembra il trionfale prodotto di venticinque secoli di gastronomia siciliana, come a dire: storia da gustare ed annusare.
Meravigliosa ed indispensabile è la presenza del cibo per descrivere la storia di un popolo, di ogni popolo.
Per quel che mi riguarda, “La mia cucina romana” racchiude in se due miei piccoli racconti che hanno come protagonista, oltre che l’uomo con le sue vanità e debolezze, il cibo che è un po’ angelo ed un po’ diavolo tentatore. Nel primo si racconta di uno chef esasperato dai giudizi di un critico che agisce, per vendicarsi, in una maniera non proprio ortodossa. Nel secondo, descrivo un ghiottone impenitente che poveretto è alle prese con una madre molto autoritaria.
Ma c’è anche un capitolo del “Dipendente” di Sebastiano Nata, che parla di una cena consumata in un “Armando al Pantheon” anni 70. Una citazione nel film oscar “La grande Bellezza” di Sorrentino ed un capitolo del mio romanzo(inedito) “Erasmo lo Resto manager non venne mai” che descrive, un pranzo tra amici, sempre da Armando al Pantheon sul finire degli anni sessanta.