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giovedì, Aprile 25, 2024

Fenomenologia della pizza bianca // La Cucina Del Ricordo // Andrea Zinno

C’erano ancora le lire, al tempo della mia adolescenza – stiamo parlano degli anni a cavallo tra i 60 e i 70 – e cinquanta lire di pizza bianca erano ciò che la “mezza fojetta” era per gli amanti del vino: una dose standard, che si prendeva andando, non importa dove, e andando si mangiava, avvolta nell’intramontabile carta marrone, che inevitabilmente si ungeva dell’olio che la pizza rivestiva e che dissuadeva dal riporla, in tasca o nella cartella, pena un’irreparabile diffusione oleosa, prodromica alla furia materna o paterna nel momento del rientro a casa.

Erano tempi in cui la pizza era bianca o rossa – ma la bianca primeggiava largamente – tempi in cui le prime pizzerie al taglio erano una sorta di chimera e, quando le trovavi, ammesso che le cercassi, facevano sì e no quattro o cinque tipi di pizza.

Farine di grani antichi, lunghe lievitazioni, maturazione, biga o non biga, idratazione, erano semplicemente termini oscuri. La pizza era la pizza e l’unico metro di giudizio era se fosse buona o meno.

La si comprava dove si passava e, benché ognuno avesse il suo fornaio di quartiere, ciò che contava era il tragitto, e non la meta, a scandire la scelta di questo o quel fornaio. Una scelta sempre di gruppo, tra amici, spesso estemporanea e dettata dall’immediatezza di un “dai, prendiamoci un pezzo di pizza”.

Io, in particolare, ricordo di un fornaio che aveva raggiunto l’equilibrio perfetto in termini di untuosità, dove prendevo, soprattutto la mattina e andando a scuola, una pizza ancora calda, che non abbisognava di null’altro se non di essere voracemente addentata, facendo dimenticare che la si fosse presa per la merenda di mezza mattina, visto che a scuola nemmeno ci arrivava.

Pizza in purezza, diremmo oggi con i termini oramai di moda. Semplicemente pizza, dicevamo a quei tempi, senza che mi si venga a dire che la pizza bianca vuole la mortazza (mortadella, per i non romani). No, a quei tempi e alla nostra età era pizza e basta. Semplicità uber alles !

Poi qualcosa cominciò a cambiare e la semplicità e l’immediatezza cominciarono a segnare il passo a favore di qualcosa che non era né meglio né peggio, ma che rappresentava, semplicemente, l’evoluzione, per alcuni, o l’involuzione, per altri, e ciò che era più non fu…

Cominciarono i riempimenti; le pizzerie al taglio presero piede e con loro i condimenti; i forni di quartiere cominciarono a estinguersi e l’omologazione, ahimè, fece il suo ingresso, con pochi laboratori che rifornivano sempre più punti vendita. L’unto non fu più tale, per la gioia delle mamme e dei papà, ma triste fu il momento per chi fu investito dal cambiamento.

Partì allora la ricerca ai forni sopravvissuti, fedeli alla tradizione e riottosi al cambiamento – quello di Campo de’ Fiori, per citarne uno – ma ciò cambiò inevitabilmente lo spirito di ciò che era stato e il fornaio non fu più ciò davanti al quale si passava, ma divenne ciò verso cui si andava. Un piccolo cambiamento nella sintassi, ma uno stravolgimento nella semantica.

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