Esiste uno chef di grido che non ha una stella Michelin nel suo blasone, che non fa la soubrette nei congressi golosi, che sta fuori dal giro patinato dello star system.
Un’eccezione che si chiama Filippo La Mantia.
È nato a Palermo 58 anni fa. È diventato celebre a Roma. Oggi, lavora a Milano. E coltiva la sua lontananza psicologica e fisica dal circo del food con un leggero, ironico, fatalismo pirandelliano.
– Rifiuta di mescolarsi con quel mondo?
“No, quando mai? Non mi chiamano e non mi hanno mai chiamato. Assolutamente mai. Il perché dovreste chiederlo a loro. Forse è perché non so parlare. Oppure sa perché? Perché non so cucinare. Ma a me non m’importa, ormai. Vivo di energia mia.”
Il perché non occorre domandarlo a nessuno. Si colloca naturalmente alla radice della dimensione umana e professionale di La Mantia.
Cucinare, cucina alla siciliana, con una schiettezza che segna la prima distanza rispetto ai suoi colleghi più acclamati. Quanto alle parole, è un fiume in piena.
Racconta di quando ha cominciato, in età già matura. Giusto 20 anni fa, a San Vito Lo Capo. Poi, un percorso a tappe. Con valigie da fare e da rifare. Ma nelle quali riporre sempre le ricette della sua terra. Prima fermata a Roma. Poi, Java, in Indonesia, che un ristorante siciliano non lo immaginava nemmeno. E di nuovo a Roma, salvo un intermezzo in Costa Smeralda. Il grande successo arriva nel 2008, col ristorante dell’Hotel Majestic, nella fatidica e mondanissima via Veneto.
“Ma io sono riuscito a mischiare tutto: gente della politica, della finanza, dello spettacolo e gente normale, come me”.
La Mantia è un uomo orgoglioso e ben consapevole dei propri allori, ma in quel “come me” non sembra vi sia un grammo di falsa modestia. È, piuttosto, un abito mentale che non ha mai dismesso. Ed è la chiave con la quale si è aperto le porte del successo commerciale, prima ancora che gastronomico.
“Lo dico sempre. Io mi sento oste e cuoco. Così si chiama il mio locale. Perché il nostro lavoro è quello. Il ristorante appartiene ai clienti, non a me. Bisogna comunicare con le persone che vengono a trovarti. Io, per dirle, non manco nemmeno una sera al mio ristorante. Faccio gli eventi in giro solo quando è chiuso. Se so che è aperto senza di me, non va bene, non me lo godo”.
– Anche la cucina è dei clienti?
“In genere lo chef è quello che progetta un piatto, lo realizza con un sacco di tecniche e lo fa portare al tavolo. E di quel piatto non si può modificare nulla: né aggiungere, né togliere. Per lo chef, è perfetto così, è assoluto. Io la vedo diversamente, nel rispetto di tutti, per carità. Anzi, molti miei amici sono cuochi blasonati. Lo scriva. Però, il cuoco deve essere altruista: è al servizio del cliente. Ci chiamano maestri. Ma quali maestri? Questo è un lavoro che va fatto con grande umiltà”.
Tutto vero. C’è, però, la questione dell’aglio e della cipolla. Che, avendo anch’io sangue siciliano, non posso esimermi dal sollevare.
“A me non piacciono. E non li metto”.
– E come si fa a cucinare siciliano senza aglio e cipolla? Che dicono i suoi compaesani?
“Ah ah ah, ogni tanto mi infamano. Ma chi se ne fotte? Ai clienti piace senza”.
Questo atto di insubordinazione a un dogma della tradizione siciliana è l’unico strappo al tessuto che lo connette alla sua città. Siamo quasi coetanei. E so bene anch’io che, a questa età, i fatti, i volti, gli umori del nostro passato ci sussurrano all’orecchio, ci chiamano.
“Milano è la velocità. E vivo bene così. Mi adeguo. Viaggio anch’io a mille all’ora come lei. Anzi, le mancherei di rispetto, se non lo facessi. Ma se dovessi andare via, ed è improbabile, tornerei a Palermo. In questo momento, ho la massima nostalgia di Palermo. Nostalgia di quella lentezza, che hanno ancora i miei amici di Palermo e che per loro è una filosofia di vita”.