Il pranzo della domenica, tradizione ahimè in rapido dissolvimento, essendo tutti oramai travolti dalla frenesia del “dover fare per forza qualcosa” durante i weekend, era, ai miei tempi, un atto quasi istituzionale e, non a caso, si realizzava dopo la messa della domenica, che per chi crede era un momento altrettanto importante.
Il pranzo della domenica, a dispetto del nome, non era un pranzo, o almeno non solo, visto che era anche momento di riunione, quasi catartico, dove nel privato della famiglia, o al più nei confini di quella allargata ai parenti più stretti, ci si raccontava l’accaduto della settimana, se ne rideva, ci si commuoveva, si affrontavano problemi e si decidevano gli atti della loro risoluzione e, infine, era momento di pianificazione della settimana che ancora doveva venire.
Non era solo un pranzo, ma ovviamente il cibo ne era il collante, guidato da un menù non scritto e non detto, ma che tutti già sapevano cosa proponesse, visto che la sua immutabilità era essa stessa parte integrante del riunirsi. Nessuno sapeva, ma nessuno rimaneva sorpreso nel sedersi a tavola, certo di ritrovare quello che nessuno gli aveva suggerito, in accordo a una liturgia consolidata nel tempo e nella memoria.
Una liturgia che governava il pranzo in senso ampio, dal momento dell’arrivo, ai saluti, alle chiacchiere, al pranzo vero e proprio, fino alle attività postprandiale, tra le quali spiccavano memorabili partite a carte, come la borghese ed elegante canasta o le più popolari e veraci briscola e tresette, fino al commiato e al ritorno alle rispettive case, con quel leggero senso di obnubilamento, che portava ad affermazioni, poi regolarmente smentite e che suonavano più o meno come: “oddio quanto ho mangiato! A cena giusto un minestrina, mi raccomando”.
Ma ciò che più di ogni altra cosa scandiva questi momenti, che ne ufficializzava l’accadimento e che probabilmente rappresentava il climax del susseguirsi delle portate, era il “cabaret delle paste” (se vi state chiedendo il perché del termine “cabaret”, allora – e me ne dolgo – non avete vissuto quel periodo) in un periodo dove la pasticceria mignon si stava forse appena affacciando e dove qualsiasi altra forma di dolcezza era considerata pura blasfemia.
Il cabaret di paste, or dunque, rigorosamente preso nella pasticceria di quartiere – nel mio caso sto parlando della Pasticceria Marinari di Corso Trieste, ancora lì, immarcescibile – che a quei tempi aveva più poter e valore del consiglio comunale, del parroco, del medico condotto e del maresciallo dei Carabinieri (la scelta dipende dalla dimensione demografica di dove ciascuno viveva).
Sulle paste, peraltro, esistevano linee di pensiero, forse ideologie, che come la fede non erano né dimostrabili né discutibili, e sulle quali, però, si potevano scatenare dibattiti infiniti, tanto accesi quanto inconcludenti. Io, per la cronaca, ero per i bignè e le pasta alla frutta, mentre mi è sempre sfuggito il senso ultimo, e il motivo stesso della sua esistenza, del diplomatico.
Ora, però, temo tutto sia perduto e solo pochi arditi sono rimasti – e io mi pregio di essere tra questi, non senza difficoltà – epigoni di una tradizione in dissolvimento, che antepone il fare all’essere e che ha lasciato scivolare via, tra le dita, una tradizione che, ne sono certo, sempre più rimpiangeremo.