Bere il territorio: l’esperienza di SanVitis

Riccardo Bani, Massimo Orlando e Sergio Tolomei sono il terzetto di soci che ha dato vita a SanVitis, dinamica realtà che si sta guadagnando un ampio spazio nella viticoltura dei Castelli Romani, e più in generale del Lazio. Il parterre di etichette sino ad oggi prodotte si concentra per lo più sui vitigni autoctoni, ed è forte il desiderio di rispettare il linguaggio del territorio.

SanVitis è un’azienda relativamente giovane, ma con le idee chiare sin dall’inizio.

SanVitis nasce nel 2015, anno a cui risale la prima vinificazione, mentre il lancio sul mercato è avvenuto nel 2017. Siamo un’azienda nuova, che in questi tre anni ha cercato di farsi conoscere, riuscendo nell’intento e ottenendo buoni risultati sia riguardo il posizionamento del prodotto, che sulla conoscenza del brand. Ci troviamo a San Vito Romano, abbiamo sette ettari di proprietà a Olevano Romano, contrada La Torre. Un ettaro di Cesanese è destinato al nostro Cesanese di Olevano Romano Doc: si tratta di una vigna di famiglia di cinquant’anni, ripresa e rimessa in produzione, da cui ricaviamo circa tremila bottiglie. Sempre a Olevano c’è un impianto storico di Bellone, con un ettaro di Passerina, Petit Verdot e Cabernet Sauvignon, mentre il resto degli uvaggi come la Malvasia di Candia e il Trebbiano Giallo, tutti vitigni autoctoni del Lazio, sono allevati nella zona dei Castelli Romani. Di questi vigneti ne abbiamo sette ettari in affitto, che riusciamo a gestire direttamente attraverso i nostri dipendenti; qui produciamo il Flaminio Bianco, blend di Malvasia, Trebbiano e Passerina. Il resto della nostra selezione si concentra sui vini autoctoni perché vogliamo valorizzare il territorio laziale.

Qual è stata la vostra etichetta di esordio?

La nostra prima etichetta è stata il Cesanese 2015, adesso abbiamo cinque vini divisi in due linee, quella degli autoctoni con il Cesanese, il Bellone e la Passerina e poi ci sono i blend con il Flaminio Bianco e quello Rosso. Il Flaminio Rosso è l’ultimo nato in casa SanVitis ed è un blend di Cesanese, Cabernet Sauvignon e Petit Verdot.

I vigneti sono dislocati in zone differenti, ma abbastanza vicine tra loro: a quanto ammonta la produzione?

Nella zona di Olevano siamo a 300 metri sopra il livello del mare, invece, per quanto riguarda la zona dei Castelli Romani ci troviamo a un’altitudine di 180 metri. Orientativamente riusciamo a produrre 25 mila bottiglie, ma solitamente ci attestiamo sulle 3 mila bottiglie per tipologia, arrivando a quindicimila bottiglie.

Un’attività relativamente giovane come la vostra si trova oggi a fronteggiare una situazione difficile: quanto ne ha risentito l’export?

Dopo il Vinitaly 2019 ci siamo mossi con un buyer americano che, nonostante la pandemia, ha continuato a fare ordini. Non parliamo di grandi quantitativi, ma il lavoro con lui è andato avanti. In Inghilterra tutto si è fermato, anche a causa della Brexit. Stavamo aprendo trattative anche con la Romania, che purtroppo la pandemia ha interrotto.

Quest’anno il Vinitaly si svolgerà a giugno, Covid permettendo. Come giudicate la scelta di queste date?

Non è semplice fare considerazioni, perché da parte nostra abbiamo voglia di essere presenti agli eventi e continuare a raccontare il vino, ma sentiamo l’esigenza di essere coinvolti in un discorso comunicativo, come è avvenuto in passato, attraverso l’Arsial. Se questo discorso non dovesse essere fattibile per il 2021, ci siamo ripromessi di concentrarci sui contatti del nostro territorio.

L’importanza della comunicazione a livello ristorativo è fondamentale, spesso capita di imbattersi in locali con menu a base piatti tipici della tradizione romana, ma la carta dei vini parla il linguaggio di altre regioni. Come è possibile?

In realtà vorremmo saperlo anche noi, questo è anche uno dei problemi per cui i vini del Lazio non riescono ad ottenere il giusto riconoscimento. In qualsiasi ristorante fuori regione trovi la carta dei vini che parte dal territorio d’appartenenza, su Roma da poco si assiste a questo processo. Il nostro lavoro si sta indirizzando verso la nascita di un Consorzio del Cesanese di Olevano con le altre cantine, in modo da unire le sinergie per realizzare una comunicazione più efficace soprattutto sulla ristorazione.

Si parla sempre più spesso di sostenibilità: qual è la vostra posizione?

Da sempre abbiamo voluto lavorare in regime biologico, nel pieno rispetto della natura, dalla vigna alla cantina, senza ricorrere alla chimica. Non siamo talebani, ma ci piace rispettare le caratteristiche dell’uva.

LA DEGUSTAZIONE

Cesanese di Olevano Romano Doc 2017

Cesanese 100%; 14,5% vol

Sta volando sempre più in alto il rosso nobile del Lazio, inclusa questa piacevolissima versione che ha valso all’azienda il premio qualità-prezzo attribuito dalla guida Vitae 2021. Un riconoscimento che ci trova d’accordo e che lascia ben sperare per il futuro di questo vino dal denso manto color rubino, e dai tratti sensoriali che bene interpretano la varietà del territorio. Il goloso profumo di frutti rossi maturi arrotonda l’aroma floreale e lascia spazio ad una delicata chiusura speziata. Sorso polposo e convincente e tannini giustamente levigati rendono la beva assai gradevole e persistente.

Flaminio Igt Lazio 2018

Blend di uve bianche autoctone del Lazio; 12,5% vol

Dorato al calice, il profumo si concentra su note floreali di tiglio e sambuco, lasciando poi spazio a sentori di frutta, anche esotica. In bocca la sapidità è ben controllata da una buona freschezza, il sorso è gradevole e pur nella sua semplicità si rivela scorrevole e accattivante, con un retrolfatto delicatamente aromatico.