Vorrei poter raccontare il rito della vignarola.
Non credo di esserne capace, perché il meccanismo più complesso dell’evocazione primaria della memoria, quello più recondito e profondo, parte sempre dall’età adolescenziale e si aggancia inesorabilmente al cibo e al rito della sua costruzione. Ma proverò comunque a descrivere questa pietanza e tutto quello che ruota intorno ad essa.
Io sono lì ora e li rivedo tutti quei volti cari e perduti, che assieme a me mangiano e godono di quel cibo divenuto sacrale dopo una dura giornata di lavoro nella vigna di Monteporzio Catone.
Il pane lasciato fuori per tre giorni.
Il pane a pasta acida del forno di vicolo olivo, in cima alla salita, dopo la porta medievale di Rocca Priora.
Il pane veniva lasciato asciugare lentamente. Doveva essere secco ma non duro e la strana alchimia dell’empirismo di mia nonna riusciva nell’esatto proposito .
Mia nonna Teresa era una donna gagliarda e senza fronzoli come tutte e donne della sua età, nate e vissute nel paese più alto dei colli romani.
Senza fronzoli, dicevo, ma intransigente nella cura e nella selezione del cibo che avremmo mangiato.
Il pane è elemento fondamentale nel computo della vignarola.
È il carboidrato, la benzina del piatto.
Il guanciale; la nonna lo prendeva al negozio di Rosina de cartocciu oppure da un suo cugino che allevava maiali bradi a monte ceraso, un luogo eletto per i pascoli e i funghi.
Il pecorino invece lo procurava la zia Giselda, la sorella di nonna.
Giselda era una cuoca sopraffina e nella sua trattoria selezionava un Pecorino che non aveva eguali.
Mancavano altri elementi, le verdure.
Mai i carciofi.
“I carciofi ce l’hanno i velletrani” – dicevano i grandi mentre parlavano di cibo e di cosa abbinare ai tre elementi primari.
Arrivavamo subito dopo l’Alba e i filari della vigne si estendevano verso Roma.
La casetta nella vigna era stata costruita alla fine dell’ottocento ma era funzionale e pratica per i lavori di vigna. Era lì che viveva Pietro, il cugino di mia nonna. L’aveva attrezzata in maniera razionale e così poteva viverci almeno sei mesi l’anno senza sentire la mancanza della lontana civiltà dei paesi.
Con l’acqua del pozzo si poteva lavare e soprattutto cuocere le verdure che servivano per la vignarola.
Gli asparagi selvatici, le lattughe, la cicorietta, a volte le ramolacce e il tarassaco…
Sotto il pergolato, invece, si faceva la brace e con la padella di ferro si tostavano il pane e il guanciale da aggiungere all’unica pietanza disponibile quel giorno.
Il resto era assemblaggio, sapiente e perfetto nella combinazione dei sapori che trionfavano nel gusto .
Questa era la vignarola nel percorso sublime della memoria.
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