Intervista a Peppe Guida | Excellence Magazine

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Autodidatta e passionale, lo chef patron dell’Antica Osteria Nonna Rosa a Vico Equense racconta la sua esperienza commentando alcune dichiarazioni rilasciate da illustri colleghi

La tua cucina è sempre stata legata alla tradizione. E’ ancora così?

Certamente. Parto sempre dalla tradizione e poi aggiungo un tocco di modernità e leggerezza. Mi piace attingere ai vecchi ricettari e parlare con le persone anziane, come mia madre, che a 85 anni è ancora in cucina. Le chiedo sempre di raccontarmi come cucinava quando era giovane, quali erano le tecniche, gli ingredienti, com’era l’alimentazione in tempo di guerra. Poi ho la fortuna di vivere sul mare e di conoscere i vecchi pescatori. Quando li incontro e chiedo loro cosa hanno pescato, spesso mi mostrano tante specie sconosciute e poco apprezzate. Ma sono i prodotti come questi che racchiudono sapori eccezionali e che spesso i pescatori restituiscono al mare perché non hanno mercato.

Come riesci a innovare utilizzando materie prime poco conosciute?

Faccio un esempio: fino a qualche tempo fa ho avuto in carta uno spaghetto con il tordo di mare che ora ho tolto poiché non è più periodo. Il tordo di mare è un pesce strano, pieno di spine e per questo poco apprezzato. Un vecchio pescatore locale mi ha suggerito di utilizzarlo facendo una passata e il risultato è stato superiore a quello che avrei ottenuto con uno scorfano o un coccio. I clienti, molti dei quali purtroppo sono abituati a mangiare pesci di allevamento, sono stati incuriositi dal nome di questo pesce e da come viene pescato e lavorato. Abbiamo la fortuna di vivere in un mare dove c’è abbondanza di pesce azzurro, ottimo, sano e poco costoso e adatto alla realizzazione di grandi piatti.

Tornando alla tradizione, il tuo ristorante (Nonna Rosa, ndr) era in realtà la casa in cui vivevi con la tua famiglia.

Sì. Fino a 22 anni ho viaggiato e non pensavo di voler fare questo mestiere. Mio fratello è proprietario di un distributore di benzina e voleva che entrassi in società con lui. Durante l’estate era nostra abitudine fare 3 mesi di lavoro stagionale e così ho deciso di raggiungere un mio amico che dall’Inghilterra si era trasferito alle Bermuda per fare il pizzaiolo. Era andato via il secondo chef del ristorante in cui lavorava e così, conoscendo la mia passione per la cucina, il mio amico mi ha chiamato. Sono rientrato un anno più tardi con le idee molto chiare: volevo fare il cuoco. Non avendo grandi disponibilità economiche fu mia madre a propormi di realizzare il ristorante all’interno della nostra casa. Abbiamo iniziato come piccola osteria di paese con spiedo a legna e barbecue e il nome “Nonna Rosa” è un omaggio a mia madre. Negli anni, però, nonostante l’attività funzionasse io sentivo di voler fare qualcosa di diverso. La clientela allora era più orientata sull’abbondanza di un piatto e difficilmente avrebbe compreso proposte diverse.

Raccontaci della svolta, avvenuta negli anni 2003 – 2004.

Ho tolto il forno e lo spiedo e avevo ben chiaro il mio obiettivo: volevo la stella Michelin.

Quanto conta la stella Michelin per uno chef?

Premetto che tanti miei colleghi hanno avuto la fortuna di conoscere grandi chef e lavorare al loro fianco. Io sono un autodidatta puro, tutto quello che ho fatto è frutto di studi e ricerche che ho condotto autonomamente. Per me la stella Michelin è stata la svolta della mia vita. Cambia la clientela, cambia la visione del cliente rispetto al locale, cambia il business. Dal punto di vista emozionale per me il riconoscimento ha significato qualcosa che fatico ancora a descrivere. Ho saputo di avere conquistato la stella il giorno prima della presentazione della guida; ricordo che stavamo ristrutturando il locale quando ricevetti una telefonata da parte del direttore della guida Michelin che mi avvisò che quella notte ci sarebbe stata una pioggia di stelle. Fu la telefonata più bella della mia vita. Il riconoscimento mi ha ripagato di tutto perché quando avevo deciso di stravolgere il ristorante non sono stato appoggiato dalla mia famiglia poiché l’Osteria Nonna Rosa andava molto bene. Il tempo però mi ha dato ragione.

Niko Romito ha affermato: “Quello che manca nella ristorazione italiana è la stratificazione del piatto proprio perché mancano le basi della tradizione. Tutti vogliono essere creativi e invece no, la creatività è una dote, un talento, a volte non arriva nemmeno dopo anni e anni passati in cucina. Non servono piatti spettacolari: servono piatti semplici ma fatti benissimo.

Sono d’accordissimo. Io penso che il piatto debba essere bello, pulito, ma soprattutto deve avere sapore. A me piace molto la sua cucina perché è essenziale, con pochi ingredienti di altissima qualità. Quanto alla creatività è tutto vero: è un talento e o ce l’hai o non ce l’hai. I miei clienti sono in grado di riconoscere i miei piatti perché rispecchiano la mia creatività e il mio talento altrimenti sarebbero solo scopiazzature.

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Anthony Genovese dice: “E’ necessario lasciar perdere i fuochi d’artificio e gli effetti speciali e tornare alla cucina vera. Se non torniamo dietro i fornelli rischiamo di perderci”. Una affermazione in controtendenza rispetto a ciò che accade in questo momento in cui tutto fa spettacolo?

Io penso che la cucina arriverà a un punto in cui sarà necessario tornare indietro, verso la tradizione, perché la spettacolarizzazione della cucina e dei piatti è fine a se stessa ma la gente è stanca, vuole sedersi al tavolo di un ristorante e – appunto – ristorarsi, stare bene, mangiare bene e non scervellarsi davanti a un piatto complicato. Io sono per una cucina immediata e per me il futuro sarà proprio questo.

A Taste of Excellence 2015, allo chef e amico Francesco Apreda è stato chiesto, nel corso del talk “I Dialoghi della Cucina”, come sarebbe stato il ristorante del futuro. La sua risposta è stata:”Sarà divertente…”.

Sono d’accordo, la gente al ristorante si vuole divertire e non vuole rimanere troppo a lungo seduta a tavola. Quelle degustazioni lunghissime che ti catturano per 5 – 6 sono al tramonto. Il cliente oggi è preparato e lo sarà sempre di più e vuole essere accolto in un ambiente non ingessato, più frizzante ed espressione di grande qualità.

In una recente intervista, Fausto Arrighi (storico curatore della guida Michelin, ndr) ha detto: Se fai innovazione estrema, o sei un mago oppure il risultato è negativo. E’ un grosso rischio: innovazione nella tradizione, questa è la linea da seguire. Oggi ci sono cucine che sembrano sale operatorie e che offrono moltissime possibilità. I piatti della tradizione rinnovati devono continuare a emozionare”.

Questo conferma quanto detto precedentemente: anche dopo aver degustato 15 portate la gente si ricorda i miei classici come il ragù, la polpetta, la zeppola.

Sempre Arrighi prosegue affermando: ”L’eleganza è fondamentale, c’è ancora da lavorare sui dettagli. La sedia per fare un esempio deve essere comoda visto che a tavola ci stai anche per ore. Alla base, però, c’è la preparazione del piatto che deve uscire dalla cucina perfetto, come un’opera d’arte. E’ stato Gualtiero Marchesi a dare questa impronta, è lui il padre del nuovo modo di fare cucina, non viene dal Giappone questa interpretazione. I giapponesi sono grandi esecutori, da loro abbiamo imparato la disciplina, mentre dalla Francia abbiamo appreso l’ordine e il rispetto dei ruoli”.

La grande cucina italiana deve molto a Gualtiero Marchesi ma noi, qui al sud, dobbiamo molto anche a Alfonso Iaccarino che è stato il vero apripista nel Mediterraneo. Alfonso ha fatto tutto da solo, per settimane, per mesi, nessuno passava al suo locale perché non era compreso. Lui però ci ha creduto lo stesso, è andato avanti e il tempo gli ha dato ragione. Io sostengo con forza che il Don Alfonso 1860 meriterebbe tre stelle Michelin proprio per tutto ciò che ha fatto e per il simbolo che è diventato rispetto alla cucina del Mediterraneo.

Carlo Meo, autore del libro “Food Marketing”, all’interno di uno dei convegni che si sono svolti a Taste of Excellence 2015 ha dichiarato: “Una volta sia andava al ristorante con l’insegna e l’indirizzo di riferimento; gli chef si chiamavano cuochi e, non so se per scelta o altro, venivano tenuti nascosti o meglio reclusi nelle cucine. Oggi si va da Cracco, Bottura, Oldani. Il nome del ristorante se c’è non se lo ricorda nessuno e se, come probabile, lo chef è assente perché si trova a un evento, il cliente non lo perdona. Farsi cucinare dal sous chef è da sfigati. Oppure, punto inaccettabile, lo chef c’è ma non si fa vedere”.

Noi siamo cuochi, gli chef li lasciamo in Francia. Nel tempo i media hanno creato dei veri e propri idoli. Però se io faccio 500 chilometri per andare da Cracco, pretendo che sia lui a cucinare e non perché il suo sous chef non sia bravo. Tra l’altro il conto non cambia.

Il tuo collega Giuseppe Di Iorio che hanno statisticamente provato che quando lui esce dalla cucina a fine serata, le mance aumentano. In definitiva, i clienti vogliono vedere lo chef.

Esatto, vogliono vedere lo chef e parlare con lui. Quando le persone chiamano al mio ristorante per prenotare un tavolo, chiedono se io sarò presente e questo perché desiderano che sia io a cucinare per loro. Per questo io faccio sempre dire quando non ci sono e quando questo accade disdicono in parecchi. E’ giusto che sia così.

Michel Bras, in merito al rapporto tra cuoco e brigata ha detto: “Essere cuoco significa esprimere al meglio ciò che si vuole essere, dare felicità, regalare sorrisi. Ai clienti, certo, ma anche a chi lavora con noi. Tra tante discussioni su chi è meglio di chi una classifica interessante dovrebbe contemplare l’etica e non soltanto l’estetica”.

Purtroppo in questo mestiere di etica ce n’è poca. La gente si deve divertire e se un cliente entra per caso io pretendo da chi lavora con me che sia trattato come il migliore cliente mai avuto. Non conta chi entra e perché: tutti sono uguali e noi dobbiamo solo cercare di regalare un paio d’ore di serenità e divertimento, senza distinzione.

Quest’anno per la prima volta l’Istituto Alberghiero è stato il secondo in Italia per numero di iscritti, dopo il liceo scientifico. Questo perché i ragazzi hanno enormi aspettative dal settore della ristorazione.
L’aumento diiscrizioni non è dovuto alla maggiore possibilità di trovare un’occupazione ma perché i programmi televisivi fanno sognare di diventare il nuovo Cracco. La televisione ha ha fatto aumentare l’interesse delle persone per il vino, il cibo e la ristorazione in generale ma ha anche danneggiato i ragazzi che, una volta usciti dall’Istituto ed entrati in cucina, si rendono conto che tutto quello che hanno visto in televisione o che hanno fatto a scuola è totalmente diverso. E’ un altro mondo. Io suggerisco l’inserimento degli allievi in cucina per almeno un mese in estate, non tanto per formarli ma per far capire loro a cosa vanno incontro, in modo che la scelta sia più consapevole.

Un giovane collega che ti ha colpito e un piatto che avresti voluto realizzare tu.

Christian Torsiello, l’ex sous chef di Niko Romito. Ha una grande padronanza della tecnica, lavora in un posto sperduto e sa valorizzare il prodotto; avrà un grande futuro. Anche Cristoforo Trapani è molto bravo. Quanto al piatto, due anni fa l’ho mangiato da Bottura ed era “Le cinque consistenze, temperature e stagionature di Parmigiano Reggiano”. Ho passato tutto il viaggio di ritorno da Modena pensando a quanto fosse eccezionale quel piatto. Ho voluto fare un omaggio utilizzando il provolone del monaco e l’ho dedicato a Massimo Bottura.

Verrai a prepararlo a Taste of Excellence 2016?

Sì, realizzerò le “Cinque consistenze di provolone del monaco”.