Nel 1996, ero poco più che diciannovenne, ed abitavo a Londra.
Come tutti i diciannovenni attratto dalla perfida Albione dei divertimenti e degli stravizi. Le prime esperienze lavorative non furono delle migliori, e dopo l’ennesima lettera di dimissioni data dalla più classica delle Milano Spaghetti House, decisi che pur ci doveva essere altro.
Comprai una guida gastronomica di cui non ricordo il nome e scelsi di portare il mio curriculum nel miglior ristorante italiano della città: “Neal Street Restaurant” di Antonio Carluccio – il principe dei funghi.
Entrato nello splendido ingresso, tempio della cucina italiana a Covent Garden, con il mio traballante inglese, chiesi all’accoglienza di potere lasciare il mio stropicciato curriculum, e proprio in quel momento passò Nick, che sarebbe, di lì a poco, diventato il mio futuro Chef, che, in un rapidissimo quanto incomprensibile inglese mi disse:
“Sei un cuoco? Vuoi provare? Prendi una giacca da dentro il mobile e vieni con me.“
Ovviamente il mio cuore cominciò a battere ed il mio sguardo tradiva la felicità, palesando la mia paura – Allora non ero molto preparato tecnicamente.
Nella cucina del Neal Street, i ritmi erano forsennati e decine di cuochi di tutte le nazionalità ed etnie correvano all’impazzata da una parte all’altra, con un ritmo ipnotico, cadenzato, quasi fosse una danza, o forse più simile al nuoto sincronizzato. Si sfioravano ma non si toccavano mai.
Volevo essere uno di loro. L’ultimo mozzo di quella fantastica ciurma di pirati, energumeni spaventosi con l’aspetto di elefanti ma con la delicatezza di farfalle.
Mi assegnarono agli antipasti freddi, in training con Neal, un odioso inglese con la puzza sotto al naso, continuamente strafatto di cocaina.
Mi impegno, sudo, mi arrampico, mi taglio e mi brucio, ma alla fine della giornata lo Chef Nick , mi guardò e mi disse: “Bene, ci vediamo domani mattina alle 8.”
Non avevamo discusso di paga, orari o di contratti, ma non importava, la cosa importante è che ero finalmente dentro la squadra, un meraviglioso senso di appartenenza. Nonostante fossi l’ultima ruota del carro, e ben lo sapevo, avevo ottenuto il posto nel migliore ristorante di Londra frequentato da ospiti come Carlo e Diana, i Rolling Stones o Robert De Niro; dove la regina spediva il suo messo personale a far scorta di tartufo fresco o parmigiano stagionato. Ero felice.
Passarono i giorni ed io entrai sempre più nel personaggio, il pomeriggio andavo a bere birra durante il break con la brigata, con Nick , Kirk, il sous chef, e con gli altri ragazzi: Djerk Il Danese, detto anche Mont Blanc per la sua stazza, Leslie, il filiforme e velocissimo francese che lavorava alla griglia e Tiron “il ragazzo degli antipasti caldi”, un giovane di 1.95mt per 120 kg.
Si beffavano di me perchè, al contrario loro, non ero abituato a bere così tanta birra, d’altronde ero il cucciolo ed era giusto che mi prendessero in giro, serviva a rafforzarmi le ossa e farmi sentire in famiglia: “Uno di loro”.
Quasi dimenticavo. Lavoravo al fianco di Gennaro, che si occupava del pane, ora diventato una celebrità, lo avrete visto tutti mille volte su Sky con Jamie Oliver.In verità anche Jamie è passato nelle cucine di Antonio Carluccio, ma credo alcuni anni dopo di me.
Ad ogni modo, un giorno, stavo sostituendo Catherine in pasticceria, e uno dei dolci era “The Wicked Apple“: una mela intera, svuotata e riempita di una succulenta farcia di pinoli, uvetta e cannella e, successivamente, glassata in forno. Quando guardavo dalla mia postazione Cat avevo letteralmente l’acquolina in bocca.
Quel giorno il pasticcere ero io ed avevo libero accesso alla farcia delle mele. Corsi ad aprire il frigo per prendere la prima cucchiaiata: buona, succulenta, dolce e profumata. Ancora un altro, e un altro, fino a quando, quasi ingozzato, mi sentii osservato, alzai gli occhi e vidi Antonio Carluccio che era lì e mi fissava serio.
Con la bocca ancora sporca di glassa e le mani nel contenitore delle mele, pensai: “Mi licenzia, sicuro!”
Silenzio. Gelo. Attimi che sembrarono ore, nessun rumore intorno a noi a parte il ronzio del motore di un frigorifero difettoso. Fissavo i ricci capelli bianchi di Antonio che scintillavano sotto il neon della cucina, come la lama del boia che puntava dritta sulla mia testa, un piccolo cuoco italiano da poco approdato nella grande city.
Il signor Carluccio scoppiò a ridere, si avvicinò a me e con la mano prese anche lui una manciata di farcia e la portò alla bocca. Mi guardò e mi disse :
“Sono felice che ami il cibo e che lo brami, che lo desideri, lo si evince dall’espressione che hai mentre mangi.”
Questo episodio mi ha segnato. Il signor Carluccio mi ha trasmesso il sentimento principe che dovrebbe motivate un cuoco: Il desiderio.
Antonio Carluccio è scomparso purtroppo alcuni mesi fa, ma al Tino ho pensato di dedicargli un piatto che rielabora una sua ricetta dell’epoca e che sono lieto di condividere con voi: Bottoncini ai Gobetti e zafferano.
Un’esperienza da cui ho imparato tanto, e che ancora ricordo con malinconica nostalgia.