Antonello Maietta // L’intervista // Valerio M. Visintin – Excellence Magazine

Premessa. È bene sappiate che mi trovo in flagrante conflitto di interessi nel servirvi questa intervista con Antonello Maietta, presidente della Associazione Italiana Sommelier (lo hanno appena rieletto per il terzo e ultimo mandato). Conflitto duplice, per la precisione, poiché mentre io scrivo certe mie bazzecole sulla rivista dell’Ais, l’Ais collabora con Vivimilano (inserto del Corriere della sera) proprio in una rubrica a me affidata.

Un bel groviglio. Tuttavia, sono convinto che Maietta, uomo dotato di ironia e di acutezza, abbia da dire cose interessanti. E quindi, reo confesso, mi cimento in questo impegno controverso. Per le suddette ragioni, agirò con cautela. Trascurando l’Ais e il suo presidente. E concentrandomi sulle risposte del signor Maietta Antonello.

Nei ristoranti, talvolta, si teme che il sommelier dia consigli interessati.

Il sommelier deve aiutare il cliente, non lo deve mettere in imbarazzo, non deve vendergli quel che non vuole. Un tempo capitava. Ma ci stiamo riappropriando di un profilo etico. Si sta rinsaldando un patto di lealtà e di rispetto reciproco col cliente.

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Personalmente, trovo anacronistico il protocollo dei grandi ristoranti che nascondono la mia bottiglia di vino in sperduti recessi della sala.

Sì. È un retaggio del passato. Mi domando perché non si possa avere una bella bottiglia sul tavolo o un bel secchiello del ghiaccio. Quel tipo di servizio crea distacco tra il cliente e il vino. Intanto, non sai mai a che punto è la bottiglia. Inoltre non la puoi gestire. Magari il sommelier ti versa un bianco fresco in un momento in cui non vuoi bere, così si scalda. Oppure non te lo versa quando lo vorresti. La bottiglia deve stare più vicina ai commensali.

Le insegne blasonate tendono a proporre esclusivamente vini a prezzi enormi. Da Cracco mi pare non ci fosse nulla sotto i 110 euro.

Sì, però non è il vino di bassa fascia ricaricato troppo. Si sceglie di comporre la cantina con vini di prestigio, che chiaramente costano.

D’accordo, ma…

Lo so. Così si esclude una parte di potenziale clientela. È un aspetto deviante, se vogliamo, ma fortunatamente limitato.

Nella fascia più alta della ristorazione, la cucina si sta estremizzando.

Questo complica non di poco il lavoro del sommelier. Perché il vino deve andare a equilibrare l’aspetto sensoriale. Prima era molto più facile. Adesso occorre un rapporto diretto, una concertazione tra sala e cucina. E il cliente non va lasciato solo. Potrebbe essere spiazzato. Crede di aver ordinato una sogliola, per dire, ma poi si accorge che l’elemento caratterizzante del piatto non è il pesce, ma una salsa al caramello. In passato l’obiettivo era valorizzare la materia prima. Oggi passa in secondo piano. In certi casi ho l’impressione che si cerchi un mero esercizio di tecnica.

Ma le carte dei vini con centinaia di referenze hanno sempre un senso?

Non sempre. Anche perché ci sono quelli che, per esibire cantine sterminate, si fanno rifornire da grossisti specializzati a 1 o 2 bottiglie per tipo. Poi quando chiedi quel vino è sempre la solita tiritera: “…ma pensi che cosa strana: erano mesi che non lo chiedeva nessuno e oggi lo hanno chiesto 137 clienti! Se viene domani lo trova perché abbiamo la cantina di stoccaggio ad Abbiategrasso, qui teniamo soltanto la scorta minima. Sa, con i costi che ci sono qui in centro non possiamo certo avere la cantina adiacente al ristorante”. E parte la mail al grossista per consegna tassativa l’indomani.”

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Morale?

Ma fai una cantina adeguata al tuo locale e non strafare!

E che dire ai locali di cilindrata più bassa o alle trattorie?

Vale lo stesso principio. La lista dei vini deve essere coerente con la proposta gastronomica. Inutile tenere vini blasonati che costano tre volte quello che hai pagato per la cena. In trattoria mi aspetto vini compatibili.

Nei ristoranti “normali” non c’è il sommelier.

Magari non esiste una figura che fa soltanto quello: è un cameriere che si è iscritto a corso, è il proprietario stesso. Un tempo i ristoratori davano per scontato di intendersene. E in qualche caso era anche vero. Ma non sentivano la necessità di una formazione specifica, di un progressivo aggiornamento. Erano affezionati alle etichette che proponevano da sempre. Si sono dovuti evolvere, quando la gente ha cominciato a documentarsi.

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A me è capitato di battibeccare col sommelier per una bottiglia che a mio giudizio sapeva di tappo.

Bisogna stappare la bottiglie davanti al cliente. Spesso non viene fatto per eccesso di premura o per difetto di sensibilità. Il passo successivo è fare assaggiare il vino: un gesto apprezzato che vale anche come condivisione di responsabilità. Ma se il cliente dice che sa di tappo, sa di tappo. Punto. Innescare un contradditorio non serve, ha ragione lui. Nell’economia di un ristorante, quella singola bottiglia è irrilevante, rispetto al danno di un cliente perso”.

Lei come cliente è un rompiscatole?

Sono un cliente molto tollerante nei confronti dei colleghi. Mi capita di far notare qualche piccolo errore. Se non vale la pena, lascio perdere. Oppure, garbatamente insinuo un dubbio: “È sicuro? Perché a me non sembra che sia così…”.

Se l’errore è enorme, lei come si comporta?

Una volta, in un noto locale di Milano, abbiamo chiesto bonarda frizzante. Il cameriere arriva con una croatina ferma della provincia di Pavia. Sorvoliamo sul cambio di vino. Ma protestiamo blandamente: “Non ce l’aveva quella frizzante?”. E il cameriere: “Sì, è questa. Ma è appena arrivata. Dagli qualche mese e diventa frizzante”.  Per non mortificarlo, abbiamo ringraziato, trattenendo le risate.