“Essere o non essere, questo è il problema.” L’incognita filosofica shakespeariana è facilmente applicabile all’ambiente gastronomico. Da qualche anno a questa parte, infatti, nel lessico italiano è comparsa una nuova parola, composta: chef-consulente. Che sia a capo di una grande cucina, di una rinomata scuola o di un servizio catering, lo chef si sdoppia: una parte delle sue abilità rimangono radicate ai fornelli d’origine, un’altra vaga per territori ignoti, neonati o sull’orlo del disastro, che cercano di rinnovare stile attraverso i consigli, le ricette, gli stratagemmi di un veterano del settore.
Che ruolo ha lo chef-consulente all’interno di queste cucine? Sì, i piatti riportano la sua firma, confermano il suo stile, rispecchiano la sua filosofia ma sono il frutto del suo lavoro? La maggior parte delle volte assolutamente no. Lui, o lei che sia, consulta non cucina. C’è e non c’è al contempo. La sua esistenza nelle cucine di consultazione è puramente astratta e teorica.
La specie umana non possedendo il dono dell’ubiquità è incapace di svincolarsi da un posto all’altro. E dunque un Heinz Beck, un Riccardo di Giacinto saranno difficili, impossibili quasi, da incontrare all’interno di tutti quei ristoranti che, pur riportando il loro nome nel menù, non costituiscono il fulcro delle loro fatiche.
Quest’ultimo è il luogo che li ha resi celebri, che li ha fatti conoscere alle masse, ai critici, alle guide gastronomiche più in vista. Ecco è lì che li troverete. Non sempre, perché anche loro hanno famiglia e vita privata alle spalle, ma il più delle volte.
L’assenza dell’artefice dei piatti all’interno di un locale è un problema? Sicuramente costituisce un rischio che molti chef si guardando dall’affrontare. A fare consulenze non sono in tanti. Se Francesco Apreda dello stellato Imago dell’Hotel Hassler gira il mondo portando alta la bandiera della sua cucina, romana-partenopea, in Asia negli alberghi della sua catena, Roy Caceres preferisce cucinare esclusivamente per i pochi coperti del suo Metamorfosi.
La chiave di volta sta tutta nella formazione della brigata. Una volta che i vari sous-chef sono diventati ligi esecutori delle proposte della carta, la qualità del servizio è garantita.
Lo chef-consulente è incaricato di fissare uno standard, di realizzare un’industria che gli assicuri che ogni piatto uscito dal pass sia come l’originale. L’impresa è ardua ma non irrealizzabile. A dimostrarlo è Niko Romito che attraverso la Niko Romito Formazione, una scuola privata di cucina e gastronomia per la formazione a trecentosessanta gradi di chi prima solo a livello amatoriale preparava da mangiare, ha aperto a Rivisondoli, Roma e Milano Spazio, un ristorante che rispecchia la sua filosofia e rispetta il suo progetto senza la sua costante supervisione perché seguito e portato avanti da persone fidati che con lui hanno concluso un percorso di formazione.
E ancora a dirla tutta le consulenze possono essere di due tipi: griffate o meno. Molto spesso il nome dello chef-consulente, non compare neppure nell’angolo più nascosto del ristorante. Molte volte perché egli è un tassello di un più grande mosaico realizzato da società esperte nel settore che si occupano di formare il ristorante in tutto e per tutto invadendo non solo la cucina ma anche la sala ed il reparto marketing. Queste hanno alle spalle un nutrito gruppo di esperti nei vari ambiti che dopo aver rodato il terreno per qualche mese, lo abbandonano nelle mani altrui. Falliranno o toccheranno l’apice del successo? Chi può dirlo? Certamente l’aver assunto una solita di consulenze o uno chef famoso dovrebbe aiutare nel perseguire l’obiettivo prefissato dalla proprietà, ma l’imprevisto è sempre dietro l’angolo.
Le Cucine da Incubo esistono ed ora più che mai, forse per moda, forse per concorrenza, invocano la chiamata di un Gordon Ramsay o Antonino Cannavacciuolo della situazione che sia pronto a salvarli.