Filosofia, sociologia e gusto. Ogni volta che ci immergiamo in un’esperienza culinaria, in realtà stiamo anche esprimendo noi stessi, la nostra essenza, stiamo creando un legame non solo con il cibo ma con tutto il contesto. Un legame destinato a mutare, come mutevoli sono le nostre relazioni sociali e il nostro stare al mondo.
E così ieri sera a cena mi ritrovo a riflettere nel “nuovo” Retrobottega (Roma – via della Stelletta, 4 – a due passi da piazza Navona), il ristorante che ha incuriosito gourmet professionisti e foodies per quella sua aspirazione a incarnare un nuovo modo di vivere il cibo e la ristorazione.
Due tavoli sociali da dieci posti che si affacciano al bancone, in pieno stile pop – asiatic, dove gli occhi dei commensali finiscono per essere rapiti dai gesti dello chef che impiatta, mentre scambia due chiacchiere con i suoi ospiti.
Ci si apparecchia da soli, da Retrobottega. Da un cassetto chic si prende il necessario per apparecchiare. Poi arrivano i piatti, e quella certa attenzione che sfiora la mania nel ricercare la qualità delle materie prime di stagione. Una cucina naturale, che è ricerca e legame col territorio.
Del resto il cibo è condivisione. L’etimologia di “compagno”, dal latino cum-panis, significa “condividere il pane con qualcuno”. Non è solo la radice etimologica e la base semantica di molti dei termini dei rituali alimentari, suggerisce anche la solida e fondata relazione di condivisione e con-vivium che è alla base della cucina.
Quindi “condividere” è il verbo chiave su cui far girare qualsiasi frase usata per descrivere Retrobottega. Condividere. Che, declinato in quest’ambiente curato, assume quasi un connotato sexy.
Ad una società sempre più liquida e soggettivizzata si contrappone una tendenza che nel contesto metropolitano e cosmopolita appare come una crescente “voglia di comunità”.
È questo, il Retrobottega. Nell’alveo della tradizione delle botteghe della capitale, scorrono dodici ore di cucina no stop e la ricerca del lato più attraente per stare al mondo.