Cinque secoli di genialità: Leonardo da Vinci, anche in cucina

Sono passati cinquecento anni dalla morte di Leonardo Da Vinci, ma tanto è stato importante il suo contributo, che la sua presenza è ancora qui, salda e incisiva come solo quella di un Genio (la G maiuscola è voluta) sa essere.
Un Genio ricordato per io suoi incredibili contributi, che hanno spaziato in più discipline, non necessariamente contigue, dipingendo Leonardo come uno dei contributori maggiormenti poliedrici che la storia possa ricordare e, se da un lato vengono immediatamente in mente i suoi contributi alla scienza; le sue incredibili invenzioni, spesso precorritrici dei tempi; i sui mirabili lavori pittorici, che lo hanno eletto come uno dei più importanti artisti mai esistiti, dall’altro – e qui la cosa è sicuramente meno nota – si mescolano, tra storia e leggenda, incursioni in altri campi, come quello del cibo e della cucina, con interessanti contributi alla cucina rinascimentale, sia nella preparazione dei piatti, che nell’attrezzatura necessaria a farlo.

Storia e leggenda, dato che le notizie che ci arrivano non sono universalmente riconosciute attendibili e che, di fatto, si basano esclusivamente sul fantomatico “Codice Romanoff”, molto discusso dagli storici per la sua attendibilità e la sua stessa esistenza, che sarebbe – il condizionale è d’obbligo – custodito all’Hermitage di Leningrado, ma del quale non si trova il manoscritto originale.
Secondo il codice, il giovane Leonardo sarebbe stato, a Firenze, prima garzone e cuoco alla taverna delle Tre Lumache sul Ponte Vecchio e avrebbe poi aperto una locanda con quello che sarebbe diventato un altro grande dell’arte, Sandro Botticelli, chiamata Le Tre Rane di Sandro e Leonardo, dove avrebbe anticipato, con scarso successo, quella che oggi chiameremmo nouvelle cuisine, con l’intento di modernizzare le pietanze tipicamente servite nei pantagruelici banchetti del tempo, riducendone le porzioni e inventando un nuovo modo di disporre il cibo nei piatti, per quello che oggi chiameremmo “impiattamento”.
Le ricette elaborate da Leonardo, come molte delle sue invenzioni del resto, risultarono però troppo innovative e non fecero breccia nel cuore dei commensali, ancora troppo legati alle tradizioni del tempo, tema peraltro che non sorprende, visto che lo si vive anche ai nostri giorni, tutte le volte che qualcuno prova a percorrere strade nuove, che si discostano da quella che, fino a quel momento, è percepita come tradizione.
Tra leggenda e realtà, dicevamo, si attribuiscono quindi a Leonardo diverse invenzioni, nell’attrezzatura, come il girarrosto automatico, l’affetta uova, il macina pepe e lo schiaccia aglio, ma anche nelle preparazioni vere e proprie, come la sua Acquarosa, una bevanda da fine pasto, o alcune idee per antipasti veloci, semplici, che oggi potremmo tranquillamente etichettare come precursori del moderno Finger Food.
Tecnica, attrezzatura e piatti, quindi, ma anche il sapere stare a tavola e l’aver cura della propria salute, visto che Leonardo ci ha lasciato anche i suoi pensieri sul galateo e su una alimentazione sana, tema che se oggi è attuale, non lo era certo allora.
Insomma, un Genio che non finisce mai di scoprire e che, nel cinquecentenario della sua morte, è stato celebrato, tra le altre cose, anche per il suo contributo culinario, con un evento organizzato da Aeroporti di Roma presso – e non poteva essere altrimenti – l’aeroporto Leonardo Da Vinci, a Fiumicino.

Ad accettare la sfida e a confrontarsi con ciò che ci ha lasciato il Genio, due Chef stellati, i cui piatti hanno naturalmente celebrato un territorio fatto di mare: Lele Usai, del ristorante “Il Tino”, e Gianfranco Pascucci, del ristorante “Pascucci al Porticciolo”, che hanno interpretato il compito con un approccio diverso, con Usai che ha fatto propria l’Acquarosa leonardesca, rielaborandola, mentre Pascucci ha celebrato la parte inventiva di Leonardo, preparando un piatto che, citando Pascucci, “non potesse essere fatto senza le invenzioni”.

Gianfranco Pascucci ci ha allora presentato “Mare”, un piatto per certi versi essenziale, fatto da una polvere di mitili e alghe essiccati e da una spugna fatta di erbe e di alghe, arricchita dall’acqua di vongole e lupini, da un’emulsione di ostriche e una fermentazione di alghe. Un piatto, insomma, che nella preparazione necessità di tutto ciò che la tecnica moderna ci ha donato, dall’estrattore di succhi, all’essiccatore; dal sifone, all’emulsionatore e che, nel mangiarlo, richiede l’uso delle mani, un po‘ come si faceva nei banchetti rinascimentali, dove le posate erano ancora di fatto sconosciute.

Lele Usai, per contro e come dicevamo, ha puntato invece sull’Acquarosa, con una variazione di un piatto evocativo – gli spaghetti “ajo, oio e peperoncino” – arricchito con i ricci di mare e dove gli aromi di aglio e peperoncino sono stati estratti attraverso infusione e non con il classico soffritto. Infine, a dare profumo e sapore, l’acqua di rose, ottenuta a partire dall’estrazione, per pressatura dei petali, degli olii essenziali, e poi diluita con un olio neutro, in modo da avere il giusto bilanciamento.

Due piatti diversi, quindi, per composizione e per ispirazione al lascito di Leonardo, che hanno perfettamente ribadito il suo eclettismo, fatto di una passione inarrestabile per la scienza, l’arte e la tecnica, una passione che si è concretizzata in così tanti campi, da renderne quasi difficile il potersene capacitare.