Umbilicum Domus // La Cucina del Ricordo

La cucina, ventre materno; attrattore gravitazionale delle traiettorie casalinghe; brodo primordiale della vita familiare. Se la casa è il , allora la cucina è l’Io.

La cucina, come stanza, trascende i principi architettonici del costruire e supera d’un balzo le piatte ed omologate regole dell’arredamento d’interni. La cucina è il luogo, tutte le altre stanze sono spazi. In cucina ci si sta, nelle altre stanze ci si passa. La cucina è custode della memoria, le altre stanze sono custodi di cose.

Se vado indietro nel tempo, ricordo come la cucina ascoltasse con pazienza il racconto delle nostre giornate, un racconto diluito nei tempi, dove al parlare si contrapponeva il silenzio nell’assaporare il cibo, quasi fosse questo un momento di raccoglimento, necessario a fissare nella nostra mente il raccontato.

Tutto nasceva in cucina – i programmi per le vacanze; i piccoli problemi dell’adolescenza e le loro soluzioni; le liti e le riappacificazioni – grazie a quella magica alchimia che consente al parlato e al masticato di fondersi nella melodia perfetta.

La cucina è anche tollerante, visto che diventa spazio comune e poliedrico, aprendosi a momento di incontro di attività diverse – ci si studia, ci si cucina, ci si chiacchiera, qualcuno ci guarda anche la tv – tanto che verrebbe voglia di trasformare la locuzione “salotto con angolo cottura” in “cucina con angolo salotto”.

Ma la cucina non sarebbe completa senza il cibo che al suo interno si prepara e si consuma; la cucina è un olismo perfetto, dove contenitore e contenuto si fondono e trasmettono valori che trascendono quelli della loro mera somma. Cucina e cucinato formano un sistema dinamico, mutevole, tanto quanto lo sono le emozioni e lo stato d’animo con i quali ci approcciamo ad essa.

La cucina, intesa come sistema, organismo, è quindi sempre “qui e ora”, perché è “qui e ora” ciò che ci induce a esserne parte, che ci guida, più o meno inconsapevolmente, a preparare una cosa piuttosto che un’altra, nella speranza che ciò che facciamo sia vissuto dagli altri come noi lo viviamo e come noi vorremo gli altri lo vivessero.

Sono le emozioni che ci guidano, che fanno sì che ogni “essere intorno al tavolo” sia ogni volta un’esperienza diversa, un’esperienza che fa parte di ciò che trasmettiamo ai nostri figli e che vorremmo loro trasmettessero poi ai loro figli, e così via.

Questo, almeno secondo me, è ciò che rende la cucina “cultura”; una cultura che non sta solo in ciò che mangiamo e nel modo in cui ciò che mangiamo riflette il progredire della società e del modo in cui noi ne siamo parte, ma anche nel dove lo mangiamo e in ciò che accade quando lo mangiamo.

Decontestualizzare il ciò che mangiamo dal dove, quando e con chi è un errore grave, che riduce un potenziale ricordo alla semplice memoria di ciò che abbiamo consumato.