Si, lo so, probabilmente Marcel Proust si rivolterà nella tomba leggendo un titolo che scimmiotta, maldestramente, la sua immensa opera, ma confesso di non aver saputo trovare un’alternativa altrettanto valida ed evocativa; un’alternativa che andasse al cuore di ciò che, tra la fine degli anni 60 e l’inizio dei 70 – sono quelli della mia adolescenza – rappresentava il mangiare, lo stare insieme e il modo in cui il cibo era parte delle nostre vite.
A scanso di equivoci, non sono affatto un sostenitore del “ah, quando si badava alla sostanza, senza quella frenesia del voler innovare e stupire a tutti costi”. Al contrario, vedo nell’innovazione continua la sopravvivenza stessa della cucina – di ogni cosa, a essere sincero – un’innovazione rispettosa delle tradizioni, ma che da esse prende spunto per proporre cose che non nascano per stupire, ma semplicemente per essere al passo con un mondo che va avanti.
Però – c’è sempre un però, nella vita – ricordo, spesso con trasporto e forti emozioni la semplicità e l’immediatezza del pasto frugale, delle merende e delle colazioni che si facevano a quei tempi: gli spaghetti al burro o al pomodoro; le fettine panate o alla pizzaiola; la fetta di pane, rigorosamente sciapo, con il pomodoro sfranto o, semplicemente, con olio e sale; la pizza, rigorosamente bianca o al più rossa, presa dal fornaio; il caffellatte con pane, burro e marmellata. Non vorrei dire che ne ricordo ancora, chiaramente, il sapore, ma ci vado molto vicino; ben distintamente, invece, porto con me la memoria di come tutto ciò facesse parte della mia giornata e ne scandisse i tempi.
Ne devo scegliere uno in particolare? La fetta di pane con il pomodoro, che afferravo al volo tanta era la smania di uscire per tirare due calci a pallone giù in strada – allora si poteva ancora fare – o al parco. Non era tanto l’alimento in sé, ma in ruolo che giocava nell’essere prodromico di qualcosa che si aspettava con trepidazione, che sanciva la fine dei momenti di studio e dava il benvenuto a quelli del divertimento.
Era cibo parte della vita e non un suo elemento accessorio, come forse lo è oggi. Era un mangiare meno cerebrale e più istintivo, talmente parte di noi che non lo si metteva in discussione e se una cosa non ci piaceva, rimaneva lì nel piatto, nell’attesa che cambiassimo idea, visto che “qualcos’altro” non era contemplato. Un mangiare essenziale e, per questo, diretto, sia allo stomaco che alla mente.
Era un bene? Era qualcosa che oggi, per mille ragioni, non è più possibile? Era parte di un passato che non è più ripetibile? Sinceramente non ho le risposte, però il ricordo è forte e certe emozioni che allora provavo, ora fatico a provarle e vederle provate dai miei figli.
Forse dovremmo prendere il meglio delle due epoche: l’immediatezza e la semplicità di allora con l’attenzione al benessere e l’innovazione di oggi. Penso sia possibile e anche auspicabile, visto che il passato dovrebbe rappresentare l’esperienza che guida il futuro e non un vincolo per esso, che lo imbriglia nel ricordo di qualcosa che non potrà più essere.