La Pajata Romana: La Resilienza del Gusto // La Cucina Romana

E’ un luglio caldissimo della seconda metà del 1555, il 14 luglio.

Roma, la Città Eterna, è sotto scacco politico e religioso di un Papa che vuole annientare la minoranza ebraica che vive da migliaia di anni sotto lo stesso cielo dei Gentili, i cristiani romani.

Io giro per il mio quartiere tra l’Isola Tiberina e il portico di Ottavia, ammutolito e sgomento, mentre stanno costruendo il ghetto. Ci stanno chiudendo le porte e i contatti commerciali e personali con il resto della città.

La bolla che ha emanato Papa Paolo IV Carafa si intitola “cum nimis absurdum” e ci impedisce di fatto di vivere da persone libere.

Siamo relegati nel nostro quartiere dove non è possibile neanche cucinare e mangiare quello che noi tutti vorremmo, perché da ora per noi sarà vietato  acquistare carni e pesci pregiati, ma solo pesci di piccolo taglio tagli minori di carni e soprattutto interiora. Mi sento sballottato e confuso in un periodo storico così buio e autoritario, in piena controriforma. Di contro però mi sento carico di un’ energia che mi porterà certamente a cercare e trovare nuovi spunti per sostenere il mio pasto quotidiano.

Teatro-Marcello-Portico-Ottavia-Roma
Foto di Giuseppe Moscato

Oggi, visto che il macellaio mi ha negato un taglio pregiato di vitella imponendomi la pajata, cioè la parte dell’intestino tenue, ho deciso di prepararla nella maniera più semplice.

Ho portato a casa questo “fardello” di cibo, riconoscendone però la dignità e la forza. Sto pulendo la pajata dal grasso superfluo che perlopiù insiste sulla parte esterna.

Nel frattempo ho messo in un tegame dell’olio di oliva e sto facendo sciogliere uno spicchio di aglio che ho allevato da me negli orti del Tevere insieme a sedano, carota e cipolla, in pari proporzioni.

Il profumo del soffritto sta invadendo la casa e anche i piani alti. Si sta radunando intorno a me una piccola folla di curiosi che mi hanno visto rientrare a casa con questo oggetto  misterioso e si stavano chiedendo come l’avrei cucinato.

Qualcuno suggerisce di sfumare con l’aceto ma io dico di no. L’aceto si somma alla sensazione amara dell’aglio che sono costretto a cuocere senza protezione del grasso, olio a parte. Aggiungo acqua al soffritto per attenuare la forza del calore ed evitare che la base di aglio e verdure  si brucino. E’ il momento del sale, poco perché costa tanto. Dovrei avere anche del pepe da qualche parte, anche in questo caso un’ inezia perché anche il pepe è una spezia costosissima, quasi quanto l’oro e fortunatamente, essendo io un mercante, ho la possibilità di acquistarlo durante i miei lunghi viaggi.

Ma torniamo al mio piatto.

Ho legato la pajata per non fare uscire il prezioso chimo che viene custodito all’ interno creando delle piccole ciambelle che sto facendo rosolare nella base di sedano, carote, cipolle e aglio. Tra poco toglierò l’aglio che ho lasciato apposta intero. Aggiungo dell’acqua calda dopo che ho rosolato la pajata, aggiusto di sale e concludo col prezioso pepe, tostato e ridotto in polvere grossolana.

Mangio…