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lunedì, Aprile 29, 2024

Sora Maria e Arcangelo, intramontabile meta del gusto a pochi chilometri dalla Capitale

Una storia lunga cent’anni e una tradizione familiare che oggi rappresenta un vero e proprio modello in tutto il Lazio, e non solo, citata nella guida Michelin come una delle migliori trattorie d’Italia. Questo, in estrema sintesi, il biglietto da visita del ristorante Sora Maria e Arcangelo ad Olevano Romano. Aperto a Roma nel 1920 dai nonni di Giovanni Milana, originari di Olevano Romano, poi trasferiti a Roma nel quartiere Pigneto, Maria e Arcangelo hanno iniziato con una cucina tradizionale povera, con qualche influenza “borghese”. All’epoca, infatti, Maria lavorava presso l’Ambasciata Britannica e già si dilettava a preparare i cannelloni, ricetta divenuta suo cavallo di battaglia proposta ancora oggi dalla figlia Rita, cuoca ultraottantenne che affianca Giovanni dietro ai fornelli. Nel periodo pasquale da poco trascorso, Rita ci ha deliziati con la sua pizza di Pasqua, la “pizza cresciuta”, definita da alcuni un dolce anche se non lo è. Si mangia a colazione insieme alle uova sode e la corallina, come da tradizione. Pochi ingredienti semplici, arricchiti da cannella e semi di anice, alla vista presenta una bella crosta scura in superficie e morbida al centro.

L’osteria è rimasta attiva fino al 1935” racconta Giovanni Milana. “Durante un sabotaggio, nonno è stato arrestato e deportato dai fascisti e nonna è tornata al paese. Cinque anni più tardi, nel 1940, Arcangelo riuscirà a scappare e a tornare ad Olevano”. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, Maria e Arcangelo rilevano il locale di via Roma – attuale sede del ristorante – da alcuni parenti che già avevano avviato un’osteria. Giovanni frequenta la scuola alberghiera, matura diverse esperienze in cucina, anche presso ristoranti stellati, e alla morte del padre il desiderio di proseguire il cammino tracciato dalla famiglia cambia la sua vita e la sua carriera inducendolo a fare ritorno ad Olevano, per gestire la storica trattoria insieme alla madre, Rita Rocchi.

“Quando è mancato mio padre, nel 1989, avevo 22 anni” continua Giovanni Milana. “Ho sentito la responsabilità di proseguire l’attività creata dai miei nonni, e portata avanti da mio padre. Non potevo lasciare mamma da sola e, più semplicemente, era quello che mi piaceva fare”. Giovanni è un oste romantico in perenne evoluzione, nel menu gli unici piatti che rappresentano la storia del locale sono la trilogia di Abbacchio Romano Igple pappardelle alla bifolcaei cannelloni. La sua è una cucina totalmente legata alterritorio, muta a seconda delle stagioni e delle sue velleità creative. Gioca con una materia prima di altissimo spessore proveniente da piccoli produttori del territorio laziale. Nel locale si respira un’atmosfera confortevole e casalinga, angoli smart si alternano a sale arredate con mobili antichi, il servizio giovane e spigliato è di quelli che fanno sentire il cliente a proprio agio. L’ampia carta dei vini dedica grande attenzione ai produttori locali, con una vasta scelta di Cesanese, ma non mancano etichette dal resto d’Italia, dalla Francia e dagli Usa. 

Il pasto si apre con il pane di Roberta Pezzella prodotto a Frosinone, pane bianco, pane con semi di chia, grissini. L’entrée è composta da due cubotti di primosale di pecora fritti, dorati e croccanti, perfetti per anticipare i classici midollo e picanha. Il midollo di Angus gratinato, con la battuta della sua noce alla ‘nduja di Spilinga, è ricoperto da scaglie di tartufo uncinato e accompagnato da una fetta di pane abbrustolito sulla quale spalmare il midollo. La picanha di Angus (proveniente dall’allevamento di Tommaso Garganelli, in Ciociaria) è marinata in casa e affumicata al legno di ciliegio, ricoperta da insalata di campo e crudo di carciofi con majo al pecorino. Infine Il carciofo violetto, cotto alla brace e ricoperto da una salsa di battuto di mentuccia e aglio maionese leggera agli albumi, il tutto ultimato con un filo di olio evo da cultivar Itrana Quattrociocchi. Una vera esplosione di sapori, in cui sono ben definite tutte le materie prime e il perfetto bilanciamento degli aromi.

Nella scelta della portata principale, optiamo per due cavalli di battaglia: il cannellone (pasticcio di vitellone gratinato al sugo di pomodoro san Marzano e fior di latte mozzato a mano, raccolto in una sottilissima sfoglia e poi gratinati) e le pappardelle alla Bifolca. Le pappardelle sono servite con ragù bianco di carne di cortile macinata, in cui la fanno da padrone la callosità della pasta e il sapore del ginepro, ma anche dell’arancia che dona freschezza, il tutto servito su una paletta in legno. Quest’ultimo è anche il piatto decantato da Luigi Veronelli, divenuto poi amico del padre di Giovanni, Primo Milana.

Notiamo in carta anche le fettuccine di grano duro senatore Cappelli con ricotta di pecora stagionata di Anversa degli Abruzzi, mentuccia, carciofi alla romana e fritti, guanciale di maiale nero di Antonio Lauretti. Tra i fuori menù spiccano gli yakitori di coratella di abbacchio, fatti a spiedino e ricoperti da salsa terjaki con cipolle stufate all’agrodolce, e il capretto pasquale della Valle di Comino arrosto al timo, servito con patate al forno. Infine arriviamo al dolce, realizzato dal pastry chef Simone di Gennaro, di origini napoletane ma nato ad Olevano. Tra i classici vanno menzionati il tiramisù, il cubo di cioccolato fondente Valrhona, la tartelletta di crème brûlée con meringa italiana e gelato mantecato al limone, la girella sfogliata all’uvetta con gelato di banana e cannella accompagnata da crema inglese, una sorta di bun olandese. Decidiamo di spingerci verso il fuori carta, il semifreddo di pastiera glassata all’arancio su bisquit di frolla breton. 

Un’esperienza che vale il viaggio, a poco più di un’ora dalla Capitale.

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